LA RELIGIOSITÀ POPOLARE TRA SCHIAVITÙ E LIBERAZIONE

LA RELIGIOSITÀ POPOLARE TRA SCHIAVITÙ E LIBERAZIONE

LA RELIGIOSITÀ POPOLARE TRA SCHIAVITÙ E LIBERAZIONE 1166 558 Vincenzo Leonardo Manuli

(Dialogo con il sociologo Mimmo Petullà)

Sacro e profano, religione civile e religione popolare, ciò che importa è che si carichino le emozioni, amplificandole in eccesso. Danze, fuochi pirotecnici, luminarie, cantanti, questo e tanto altro nella folle estate religiosa e popolare nella piana di Gioia Tauro, una esplosione di fede, di turismo religioso, di partecipazione di massa, con risultati esaltanti da parte delle amministrazioni comunali e degli organizzatori. Svago, divertimento, una “cultura” che non bada a spese, dove si trovano i fondi e le risorse. Dialogando con il sociologo taurianovese Mimmo Petullà, affrontiamo un argomento scottante, pensiamo, proponiamo, scuotiamo, i tempi sono maturi per avviare un percorso  di riflessione.

Perché non si apre un dibattito sullo spreco di risorse pubbliche? Come si trovano le risorse finanziarie ed economiche per feste patronali non si potrebbe usare la stessa strategia per le infrastrutture necessarie nel nostro territorio? 

«I paesi chiusi e poveri di risorse materiali sono autorizzati anche dalla politica culturale a rompere gli opprimenti ritmi del quotidiano con l’eccezionalità dell’evento della festa, grazie alla ritualizzazione di un considerevole e compensativo impiego di disponibilità economiche. La condizione di umiliante alienazione sociale è incoraggiata a individuare in questa irrazionale capacità di consumo – istituzionalizzata, tra l’altro, con l’intento di accrescere potenzialità di consenso – l’unica e periodicamente trasgressiva via d’uscita. Passato l’appagante caos, generato dall’esaltata e teatralizzata esperienza comunitaria, il sistema si affretta a ricostruire l’ordine primitivo del disimpegno, riproponendo il consueto esercizio di controllo del territorio con i diffusivi e imprigionanti meccanismi sociali della povertà e dell’esclusione destinati a durare nel tempo». 

Quale impegno pastorale – particolarmente a fronte dell’organizzazione delle feste popolari – nel tentativo di proporre le ragioni di una pietà mariana caratterizzata da una spinta sovversiva ed evangelizzatrice? 

«E’ innegabile il fatto che la pietà popolare – e, nella fattispecie, quella più diffusamente mariana – assuma spesso, in modo particolare in alcuni contesti, i connotati del culto dell’abbandono e dell’afflizione. Del resto il popolo, che dal canto suo vive nella povertà e nella più marginalizzante esclusione, cerca in ogni modo le più variegate risposte all’intollerabile drammaticità dei propri vissuti. Tutto ciò non può trovare la sua unica soluzione nella compensativa proposta pastorale di una funzione di natura consolatoria, che trova la ragione di essere nella pianificata e sfarzosa organizzazione delle feste. Nonostante la consapevolezza che l’esuberante linguaggio dei sentimenti sia un antropologico e interessante punto, bisogna ammettere che esse si rivelano da una parte come un vero e proprio oltraggio alla strutturale precarietà economica del territorio – a motivo dei considerevoli e programmati investimenti – mentre dall’altra attivano processi di consumismo del sacro, capace solo di rendere i fedeli preda di ulteriori e rafforzanti meccanismi dell’illusione. Appare come un’urgenza del nostro tempo pensare a strategie di resistenza, a fronte di tale progressivo e sottovalutato annichilimento, inquadrando la religiosità popolare – che è anche sapienza esistenziale – non più sotto forme strumentali e oppressive, ma trasformativamente libere e liberanti, capaci appunto per questo di sollecitare il passaggio da un piano emozionale e devozionistico a quello etico e audacemente aperturista all’impegno sociale e politico. Mi sovviene in mente l’espressione dell’insigne mariologo Padre Stefano De Fiores – mio unico e indimenticato maestro – laddove affermava che “il cristiano che guarda a Maria non può essere complice delle ingiustizie del mondo, né ridursi a renderle omaggi e preghiere, ma deve parteggiare col Dio dei Poveri e impegnarsi in un amore politico verso di essi, onde contribuire alla liberazione del mondo da ogni ingiustizia”».

Le chiese locali condividono l’eccesso di questi festeggiamenti civili, che strumentalizzano la religione per interessi particolari. Nel duemila i vescovi calabresi produssero un “documento” Norme sull’uso del denaro, in particolare sulle feste religiose e popolari, lettera morta, disatteso e mai praticato.

«In molte feste è possibile costatare che, sull’esperienza di socializzazione e d’integrazione – dunque sulla complessiva e coesiva crescita dei rapporti di reciprocità – continui a prevalere un generalizzato e ostentato stile di sfarzo e di spreco economico, ingiusto alla radice perché tra l’altro danneggia la già fragile tenuta del tessuto comunitario. Si tratta della volgare e grottesca esteriorizzazione di una dissipazione materiale, che peraltro ingenera un insopportabile squilibrio rispetto alla celebrazione liturgica, mentre attende ancora la sistematicità di più coerenti interventi – peraltro già ecclesiologicamente delineati – volti a ridefinire e mettere in discussione, in modo audace e permanente, l’esiziale impatto di tale approccio. Non adoperarsi pastoralmente sulla problematicità del su esposto quadro situazionale – scuotendo, criticamente, l’indifferenza anche attraverso opportune forme di catechesi – significa continuare ad assecondare la presenza e la seduzione di sovrastrutture estranee e perverse che, del culto dell’avere e dell’apparire ne fanno un credo, tendente a servirsi della persistente precarietà esistenziale per favorire forme d’interessi economici e di potere».

Non è tollerabile rimanere in silenzio, tutto passa come promozione turistica e culturale. Il processo di socializzazione e di partecipazione sociale in questi eventi estivi segna passi decisivi nell’ambito del bene comune, per la costruzione di città aperte, libere dalla delinquenza e dalla droga?

«Il concetto basilare della socializzazione – unitamente ai processi attraverso i quali essa si svolge – trova la sua ragione di essere nel complesso e articolato sviluppo dell’identità, lungo tutto l’arco dell’esistenza, grazie alla produzione e alla trasmissione di valori, norme e comportamenti, rinvianti tra l’altro alla quotidianità della vita collettiva. Appare evidente l’importanza assunta da fattori relazionali di ampia portata, condizionati dalla determinante e molteplice presenza di agenti della socializzazione e dall’esposizione di fattori di natura ambientale. Bisogna ammettere, alla luce di quanto detto, che la prospettiva di senso offerta dalla cultura contribuisce notevolmente a definire l’ampliamento o i limiti della strutturazione di percorsi della stessa socializzazione. Salvo talune eccezioni, nel contesto della locale realtà gli eventi estivi riassumono – a fronte di qualsivoglia questione sociale – la sostanziale espressione della nullificazione esperienziale delle forme della cittadinanza attiva, dal momento che non costituiscono una risposta alla diffusa crisi di partecipazione critica e convinta alla sfera pubblica». 

A che punto è il processo di umanizzazione della vita sociale nei nostri contesti? Incendi boschivi, criminalità, sanità al collasso, assenti nell’agenda politica della programmazione, latitanti su temi in cui si è a livello di paesi del terzo mondo.

«Si coglie una notevole disattenzione alla corresponsabile dimensione etica e pedagogica della custodia del sé e dell’altro, al punto che le relazioni sociali – nel loro valore e significato – sono avvertite come sostanzialmente irrilevanti, oltre che incerte e instabili. Ci troviamo di fronte a un sottovalutato processo di spersonalizzazione, tendente a maltrattare – fino a negare – tutto ciò che di umano alberga nel prossimo, a partire dagli stati interiori portatori delle ricche istanze della diversità.  Nonostante ciò nei nostri contesti si è convinti di essere tutti insieme, mentre sfugge il fatto che si fanno sempre più spazio nuove e subdole forme di discriminante isolamento e solitudine. Forse è tempo di recuperare i vissuti – ospitando innanzitutto quelli più diffusamente periferici, frammentati e discontinui – e incoraggiare, al contempo, la riscoperta del senso di appartenenza anche attraverso la proposta di percorsi di condivisa costruzione della vita collettiva. In questa direzione di senso un’interessante prospettiva – capace, tra l’altro, d’inserire nel consorzio umano e fronteggiare la narcosi delle emozioni – potrebbe provenire dalla parrocchia, ovviamente a condizione che tale fondamentale istituzione evangelizzatrice non sia scollata dal territorio e riesca con creatività missionaria a intrattenere relazioni con chi vi  abita. Un necessario approccio pastorale, questo, che sempre a proposito dei processi di umanizzazione solleciterebbe l’esperienza nella sequela di quel Cristo che – come afferma il Concilio Ecumenico Vaticano II – “rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” ».

I temi come l’ecologia, la legalità, la democrazia, sono segni significativi ed evidenziati per la crescita dei cittadini? E’ possibile – nei nostri contesti – strutturare una pastorale d’impegno sociale e salvaguardia del territorio, aggredito da un integrale controllo ‘ndranghetista, che  fa spesso irruzione attraverso forme di vera propria criminalità ambientale? 

«Le aree tematiche indicate dovrebbero rappresentare per ogni comunità i grandi e urgenti ambiti critici, sui quali misurare il livello di maturità delle pratiche partecipative nelle loro fondamentali ragioni e nei loro delicati assetti. Sarebbe impensabile incentivare la responsabilizzazione del collettivo sociale senza favorire il dialogo – come pure l’incontro tra diversi punti di vista – intorno a tali complesse argomentazioni. Bisogna tuttavia ammettere che, nelle maggioranza delle nostre apatiche realtà cittadine questo essenziale processo non è stato ancora attivato, mentre in altre appare appena timidamente tratteggiato. A pagarne le spese è ovviamente la tenuta delle comunità territoriali, la cui coesione sociale risulta ormai indebolita perché priva di una politica e di una cultura civica capaci di rinforzare il senso critico di appartenenza intorno a un individuato e comune progetto. Una forte sollecitazione può scaturire dalla prassi di una pastorale aperta alle istanze problematiche del territorio, attraverso uno sguardo critico sulle scelte di sviluppo e con un’attenzione particolare alla questione ecologica. In modo particolare quest’ultimo rappresenta un impegno che richiede forti motivazioni, in grado anche di puntare il dito contro la ‘Ndrangheta – a partire dal suo mortifero sistema di smaltimento illegale dei rifiuti – la cui spietata ricerca e conseguimento del potere sono da considerare come un inammissibile oltraggio alla rivelazione di Dio nel creato». 

E’ sempre un piacere e una crescita dialogare con il prof. Petullà, il blog, il telefono, i nostri incontri diventano un’agorà, che condividiamo con gli amici, gli appassionati del pensiero, con i folli. Per me ogni riflessione con lui è una crescita, uno slancio, un osare, alla luce della forza evangelica e umana di offrire il proprio contributo in questa umanità smarrita e senza punti di riferimento.

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