L’oleandro della mia vita

L’oleandro della mia vita

L’oleandro della mia vita 1600 1599 Vincenzo Leonardo Manuli

Ho voluto piantare nel giardino di casa mia l’oleandro, pianta bella, verde, piena di vitalità, velenosa, che produce anche fiori accattivanti, perché pure il male ha il suo fascino. La voglio vedere, ammirare, anche se la incontro in forme diverse, nel feriale dove si nasconde, trama inganni, nello spazio grigio, sociale e mentale, di schemi e sistemi. In Calabria e in altre zone del mediterraneo essa è una pianta molto diffusa, non sto qui a descrivere i caratteri botanici che possiamo trovare in un qualsiasi dizionario specifico o su internet, se si è amanti della ricerca e dell’approfondimento, oppure ci si sofferma solo al trafiletto. Confido che mi ha incuriosito la pianta dell’oleandro quando il dott. Nicola Gratteri, – procuratore della Repubblica di Catanzaro, in prima linea contro la ‘ndrangheta che vive sotto scorta dall’aprile del 1989 -, ne parlò in uno dei suoi tanti libri sulla ‘ndrangheta, La malapianta (Milano, 2010, 183 pagg.), volumi diventati ormai best sellers, associando la criminalità alla malapianta, un eufemismo profondo, trasversale, che abbraccia gesti, comportamenti, costumi, del calabrese, malelingue, invidie, silenzi, calunnie, prigionieri di pregiudizi e arretratezze culturali.

Così scrive nel libro Acqua santissima (Milano, 2020, pagg. 208): 

«La ‘ndrangheta è come l’oleandro che carezza le rive dei corsi d’acqua calabresi si presenta come una delle tante piante ornamentali del Mediterraneo e, grazie ai vivaci colori, sembra un inno alla vita. Invece accanto alla fioritura rigogliosa, così come la ‘ndrangheta, l’oleandro nasconde veleno e morte» (pag. 38). 

Non sono quei silenti comportamenti che alimentano e fanno rifiorire questa organizzazione criminale senza distinzione di persone? Non è forse vero che nella mentalità comune essa è sottovalutata e non ci sono risposte critiche per prendere distanze da atti velenosi e mortiferi? Considero peggiore della criminalità comportamenti e gesti, sistemi e gestioni ordinarie, ormai prassi abitudinaria di rimosse coscienze ipnotizzate e annebbiate. Non c’è nulla da fare per la Calabria? Complicità, raccomandazioni, favori, contribuiscono o no ad un ethos impermeabile a virtù filosofiche e religiose?

Di recente io mi sono gettato in un lavoro sull’antropologia del calabrese, un mio modestissimo contributo, non sono un esperto ma autodidatta, La malaerba dell’oleandro dentro gli spazi calabresi (Cosenza, 2020, pagg. 110), usando anche il mito greco della lotta tra Ercole e Antèo, e a proposito della pianta tossica dell’oleandro, mi ricorda che se amo questa terra, povera, dominata e schiava di stereotipi, maltrattata e sfruttata dallo stesso calabrese, non posso sentirmi estraneo alla battaglia culturale e civile. 

La pianta dell’oleandro è paradigma, ombra, cartina di tornasole di quello che vive accanto a noi, allora l’ho voluta presente fisicamente nel mio giardino, perché mi piace guardarla in faccia, senza sfida, a testa alta, con fierezza, senza nascondermi, quale ornamento e avvertimento, a distanza, per studiare, e convivere con un essere vivente con la quale condividiamo la stessa aria e lo stesso spazio. La pianta dell’oleandro richiama la nebbia, comportamenti ambigui, habitus reiterati passati per gentilezza, un male incurabile, senza che alcuno se ne accorga, assuefatti di aria viziata e di spazi occupati e controllati. 

Scriveva il filosofo Nietzche: 

«La terra ha una pelle, e questa pelle ha delle malattie. Una di queste malattie si chiama “uomo”». 

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